Fasi micropropagazione


Indice:
  • Introduzione alla Micropropagazione
  • Il concetto di totipotenza
  • Il substrato
  • La micropropagazione in Italia
  • Le fasi della Micropropagazione
  • Importanza della Micropropagazione
  • Fattori fondamentali della Micropropagazione

Introduzione alla Micropropagazione
Per micropropagazione si intende la propagazione di piante per via vegetativa mediante la coltura in vitro di singole cellule o di gruppi di cellule o di piccole frazioni di tessuto, di organi delle piante che si intendono moltiplicare. Sin dal 1940 circa, era nota la possibilità di tenere vivi in vitro, anche per tempi molto lunghi, tessuti ed organi isolati dalla pianta; in anni successivi il graduale affinamento delle tecniche laboratoristiche permise di ottenere la rigenerazione di piante intere partendo dalle cellule, dai tessuti, dagli organi in coltura.  Tale possibilità si basa su una attitudine propria delle cellule somatiche vegetali, la cosidetta totipotenza,grazie alla quale esse, superato il periodo di differenziamento, possono riacquistare la capacità di dividersi, dando luogo alla formazione di nuovi tessuti. Questo può avvenire poichè le cellule vegetali, a differenza di quelle animali sono in grado di acquisire nuovamente le caratteristiche giovanili, dopo il loro ingresso nella fase adulta.  Attualmente l’epoca sperimentale della micropropagazione è terminata e la produzione di piante micropropagate rappresenta un settore in costante e rapidissima evoluzione, al punto che, per un certo numero di specie, essa s’è ormai imposta nella realtà operativa.

Le colture in vitro di tessuti e cellule vegetali, per le manipolazioni genetiche che permettono e per le prospettive esaltanti che offrono fanno certamente parte della rivoluzione biologica a cui stiamo assistendo in campo scientifico. Mentre le nuove sconvolgenti tecniche di Ingegneria Genetica attuano la ricombinazione di informazioni genetiche creando  organismi non esistenti in natura ( batteri che sintetizzano insulina, ormoni,anticorpi, vitamine)  ponendo nello stesso tempo gravi problemi etici e sociali. Nel campo vegetale invece non si presentano questi problemi e si prevede un uso sempre  maggiore di queste tecniche nel campo dell’agricoltura e del miglioramento genetico di una specie.

La propagazione in vitro ha portato, in questi ultimi anni, un notevole contributo nel settore della moltiplicazione delle piante coltivate siano esse erbacee che arboree. Il sistema si è dimostrato particolarmente vantaggioso per la possibilità di produrre, da uno stesso espianto ed in un minor lasso di tempo rispetto ai sistemi tradizionali,una grande  quantità di piantine. La micropropagazione ha aperto nuove possibilità per la rapida moltiplicazione di portainnesti clonali di recente introduzione, mentre per la cultivar dove è necessaria una perfetta trasmissibilità di determinate caratteristiche, deve essere effettuata con delicatezza e precauzione.
        
Il problema, tuttavia per alcune specie, al contrario di altre, è stato affrontato, ed a secondo della tecnica impiegata,si è visto che le mutazioni sono state contenute entro limiti tollerabili, per cui oggi la tecnica può essere impiegata con sufficiente grado di sicurezza.



Nel 1949, si era osservato che il meristema apicale di una pianta infettata da un virus (cioé la piccola massa di cellule indifferenziate, con una dimensione inferiore al decimo di millimetro, situata all'estremità dello stelo o del fusto, che cresce costantemente ed origina gli organi della pianta) era, quasi indenne. Anche i semi prodotti da una pianta infetta erano molto spesso sani.
Il meristema si moltiplica per originare una piccola pianta che porta 5-6 foglie; dopo alcune settimane, lo stelo viene diviso in 5 o 6 microtalee che, in condizioni favorevoli, si trasformano in piante complete. I vantaggi sono notevoli: un meristema di lampone può produrre anche 50.000 discendenti per mezzo della coltura in vitro, quando le tecniche classiche di propagazione ne forniscono soltanto 50 per anno; Un altro vantaggio della coltura in vitro dei meristemi è l'ottenimento di piantine, in particolare nelle piante annuali.
Il rischio più grave di questa tecnica di propagazione vegetativa è quello della diminuzione della variabilità genetica;
È dunque necessario, oltre al perfezionamento delle tecniche di produzione di massa di alcune specie di piante, creare delle banche di geni per conservare i patrimoni ereditari indispensabili al mantenimento della variabilità genetica.
Molte specie di piante coltivate vengono propagate per via agamica con lo scopo di conservare alcune caratteristiche varietali essenziali, sia perché sono sterili, sia perché il loro genoma è troppo complesso e quindi la riproduzione gamica rischia di determinare delle gravi variazioni fenotipiche. In queste specie appaiono talvolta dei cloni diversi dalle linee parentali: sono delle varianti somatiche, che provengono da cambiamenti genetici nelle cellule dei meristemi (modificazione del numero dei cromosomi nel nucleo, mutazioni a livello di alcuni loti genici, cambiamenti a livello dei geni extranucleari nei cloroplasti o nei mitocondri). Molte varietà coltivate derivano da varianti somatiche: il pompelmo rosa, il mandarancio, la pesca nettarina (o nocepesca) e molte varietà di patata. Nella batata (patata dolce o patata americana), la frequenza di queste varianti somatiche può arrivare al 2% e la conservazione della purezza varietale attraverso le abituali tecniche di propagazione vegetativa è un problema. 

Gli sforzi compiuti dopo la metà degli anni '70 per ottenere la moltiplicazione vegetativa della palma da olio attraverso le tecniche della coltura in vitro meritano, per le loro conseguenze sul piano economico una menzione particolare. In Costa d'Avorio, le piante selezionate dallo Institut de recherche sur les huiles et les oléagineux (IRHO) producevano più di 4 t/ha/anno di olio contro 1 t/ha/anno delle piante non selezionate;  in Colombia, con piogge meglio distribuite e suoli migliori, la resa poteva superare le 6 t/ha/anno. Il miglioramento attraverso l'incrocio è una tecnica che richiede molto tempo, perché si stima che occorrano dieci anni per giudicare in modo soddisfacente i risultati. I ricercatori si erano quindi indirizzati verso la moltiplicazione vegetativa degli individui aventi una produzione elevata. Ma la palma da olio non forma dei polloni naturali, le foglie non radicano naturalmente e non è possibile prelevare dal suo tronco dei ramoscelli che potrebbero essere trapiantati. I ricercatori non avevano altra scelta che di ricorrere alla coltura dei tessuti in vitro. Né la radicazione in vitro di piccoli pezzi di fusto con molte gemme, né la coltura di meristemi era stata possibile nel caso della palma da olio. Era stato allora necessario decidersi ad ottenere delle masse di tessuto non organizzato, o callo, in seguito ad una «dedifferenziazione» di tessuti di organi differenziati, quindi coltivare questi calli fino a quando non giungevano alla rigenerazione di una plantula completa. I ricercatori della società Unilever e quelli francesi dell'IRHO e dello ORSTOM (Office de la recherche scientifique et technique outremer) riuscirono a farlo . La tecnica messa a punto dai ricercatori dello IRHO e dello ORSTOM consiste nel prelevare delle foglie giovanissime alla sommità dell'albero, senza ledere il meristema della gemma apicale (perché in tal caso l'albero muore). In un primo mezzo di coltura, si formano nel giro di 90 giorni, i calli partendo dai frammenti delle foglie; dopo il passaggio su un secondo ed un terzo mezzo di coltura i calli si trasformano in «embrioidi», che sono molto simili agli embrioni originati dalla riproduzione sessuale. Gli embrioni si automoltiplicano spontaneamente e questa moltiplicazione viene favorita in un quarto mezzo di coltura; il numero di questi embrioni può triplicarsi in un mese, in tal modo una decina di loro ne producono in un anno più di centomila. Un quinto mezzo di coltura permette lo sviluppo degli embrioni in plantule complete di foglie, mentre un sesto ed un settimo mezzo favoriscono la radicazione. Sono necessari tre mesi per passare dallo stadio di «embrioide» a quello di plantula la cui parte aerea è alta una dozzina di centimetri. La produzione di plantule che utilizza questa tecnica di clonazione venne realizzata, all'inizio del 1981, in scala semi-industriale presso il centro di ricerca di La Mé in Costa d'Avorio. 
Concludendo, milioni di plantule di palma da olio, dalle caratteristiche ben definite dovrebbero poter essere distribuite nei paesi tropicali interessati.

Il concetto di totipotenza
Nelle cellule vegetali, a differenza di ciò che avviene in quelle animali, la separazione tra linea somatica e linea germinale è molto tardiva. Inoltre, le cellule vegetali presentano un accrescimento numerico illimitato. Tali caratteristiche si possono condensare nella definizione di totipotenza, che per l’appunto caratterizza le cellule vegetali. La totipotenza fa sì che sia possibile coltivare tessuti vegetali, ma anche cellule, su substrato artificiale ed in ambiente controllato. Questa tecnica prende il nome di coltura in vitro, ed i suoi primi tentativi risalgono al periodo tra le due ultime guerre mondiali, allorquando si riuscì a coltivare artificialmente dapprima tessuti meristematici e poi anche altri tipi di tessuti di piante.

La micropropagazione in Italia
La storia della micropropagazione commerciale (o su larga scala) in Italia risale agli anni ’60, quando in Liguria alcuni laboratori iniziarono un’attività di coltura  in vitro basata sulla proliferazione meristematica di garofano e sulla moltiplicazione per protocormi di orchidee. Queste applicazioni si realizzavano in Italia 58 anni dopo il primo tentativo di Haberlandt di coltura in vitro di un tessuto di monocotiledone. Verso la fine degli  anni ‘60, il risanamento da batteri e funghi di piante fruttifere arboree fu praticato dai Vivai Zanzi, con l’assistenza dell’Istituto di Patologia Vegetale di Bologna. Queste attività, tuttavia, non presero in considerazione la possibilità di effettuare una moltiplicazione clonale su larga scala, quanto quella di ottenere “stock foundations” di materiali risanati da batteri o da virus, anche associando alla coltura di meristemi i trattamenti termoterapici. Fu solo nel 1976 che si realizzò il primo grande laboratorio di micropropagazione italiano. Esso nacque dall’esigenza di eradicare fitoftore, antracnosi, virus, batteri e micoplasmi che infestavano i vivai e le coltivazioni di fragole della Romagna. Il Consorzio del Fragolone  di Cesena si fece carico dell’allestimento del Laboratorio (con il sostegno della Regione Emilia Romagna e con l’assistenza tecnica dell’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma). Durante i primi 8 mesi furono prodotte circa un milione di plantule radicate della cultivar Gorella. Qualche mese dopo Zuccherelli, Venturi e Damiano presentarono il protocollo di micropropagazione  del ‘Damasco 1869’ alla Tavola Rotonda sulla Propagazione Massiva tenutasi a Gembloux; questo protocollo risultava essere il primo per le drupacee e seguiva solo quello per il melo, sviluppato in Inghilterra 5 anni prima.
L’improvviso successo che derivò, dall'utilizzo di questa tecnologia, ha però distolto le aziende italiane da una programmazione più oculata che considerasse gli sviluppi a lungo termine. Infatti, molti laboratori che si erano introdotti nel mercato negli anni ’80, ad un successo iniziale seguì un lento declino poiché essi non erano stati in grado di collocarsi su scala industriale. Inoltre, l’aumento dei costi e la stagnazione dei prezzi portarono le aziende a ridurre gli investimenti rivolti alla modernizzazione delle loro strutture o alla ricerca di nuove specie da proporre al mercato. Le aziende, progressivamente, invecchiavano e tal deficit non era legato ai soli investimenti aziendali ma a tutto il sistema di produzione, logistica e di commercializzazione dell’intero settore. Tale situazione si aggravò ulteriormente  a seguito della stabilizzazione dei consumi pro-capite ed alla nascita sul mercato della grande distribuzione che richiede un’organizzazione ed efficienza che solo un sistema strutturato può fornire. Inoltre, l’approccio tradizionalmente individualista del nostro Paese ha indirizzato i laboratori verso una politica di sfruttamento di brevetti di terzi o di utilizzazione di materiale libero da brevettazione. Al contrario, l’utilizzazione di genotipi e tecnologie di proprietà e l’organizzazione in catene produttive sono stati, a partire dagli anni ’90, i punti fondamentali di sviluppo per l’Olanda, Francia e Stati Uniti. Ad oggi, l’Italia si trova a dover affrontare anche la competizione di paesi terzi aventi costi di produzione non sostenibili in paesi industrializzati. Ne consegue, l’esigenza di creare reti di collaborazione tra enti pubblici e privati nonché flussi produttivi organizzati che possano affrontare in modo più maturo l’attuale pressante concorrenza internazionale.
 Con la costruzione di altri laboratori, in Romagna e in altre Regioni, si assisteva nel 1991 alla produzione di circa 15 milioni di piante micropropagate, ottenute da  una ventina di laboratori commerciali. Nella ricognizione effettuata nel 1999 i portinnesti di fruttiferi erano largamente dominanti, ma con una offerta crescente di ortaggi, piante ornamentali da fiore, da fronda o da interno, con ciò indicando anche un sensibile sforzo per incrementare  e migliorare i protocolli di moltiplicazione  in vitro di numerose altre specie. Gli ultimi dati produttivi si riferiscono ad un’indagine del 2006 che stimava la produzione italiana di piante radicate micropropagate in circa 30 milioni, comprendente 21 tipologie di raggruppamenti vegetali.


Le fasi della Micropropagazione


Le fasi tipiche di una coltura in vitro sono: 

• allevamento delle piante-madri in sanità (stadio 0); 
• scelta del propagulo e sua disinfezione; prelievo dell'espianto e messa in coltura (stadio I); 
• proliferazione degli espianti e loro moltiplicazione via sub-cultura (stadio II) 
• radicazione degli espianti (stadio III); 
• acclimatamento (acclimatazione o indurimento; stadio IV). 


Fase 0: Selezione e preparazione della pianta madre

La scelta della pianta da cui prelevare il materiale o espianto di partenza è importante per assicurare, a fine ciclo propagativo, una produzione di buona qualità. La pianta madre che può essere allevata sia in serra che in campo deve rispondere allo standar varietale, deve essere indenne da patogeni (in particolare per i fruttiferi, esente da virus), deve essere vigorosa e non deve aver subito stress ambientali. Per ridurre il livello di contaminazione possono essere eseguiti trattamenti fitosanitari, mentre per incentivare la successiva crescita e proliferazione in vitro degli espianti è utile somministrare fitoregolatori all'intera pianta o a parti di essa. In serra è più facile mantenere le piante sane perchè si possono controllare i fattori che determinano lo sviluppo dei patogeni e quindi le infezioni. Di grande importanza è il controllo della percentuale di umidità ambientale, che deve essere il più basso possibile. Il materiale di partenza può essere prelevato da piante in attiva crescita o dormienti a seconda della specie, dell'età e del metodo di coltura; deve essere comunque reattivo alla coltura in vitro quindi le gemme, se dormienti, vanno trattate, ad esempio con il freddo, per rimuovere la dormienza. Il comportamento della futura coltura di meristemi, come precedentemente sottolineato, è influenzato da:

  •  la stagione di prelievo dell'espianto: le condizioni ambientali di temperatura e luce  intensità e fotoperiodo) determinano nei tessuti della pianta un diverso contenuto di carboidrati di riserva, di proteine, ma soprattutto di ormoni;
  •  lo stato fisiologico della pianta madre: un'apice vegetativo in attiva crescita si sviluppa in vitro più rapidamente rispetto ad uno proveniente da una gemma, anche se è più difficile conseguire la sua sterilizzazione;
  •  l’età della pianta madre: per certe specie, prevalentemente forestali, è indispensabile partire da materiale fisiologicamente giovane, poiché l'adattabilità della pianta alla coltura in vitro viene spesso perduta con l'età.


 Al fine di ottenere un ringiovanimento del materiale di partenza si possono fare innesti su giovani semenzali, oppure si ricorre alla potatura di ringiovanimento.

Fase 1: Organizzazione della coltura asettica
Questa fase prevede la raccolta del materiale, la sua sterilizzazione, il prelievo e la messa in coltura.

Raccolta del materiale
Generalmente la coltura parte da meristemi o da apici vegetativi, i quali sono costituiti da un cono vegetativo, comprendente il meristema, e da alcuni primordi fogliari subapicali. Gli apici vegetativi possono trovarsi all'estremità di un germoglio in attiva crescita, oppure possono essere ottenuti da una gemma indotta a germogliare in vitro. Di conseguenza il materiale di partenza può essere: erbaceo, semilegnoso, legnoso. Le gemme devono essere in fase di germogliamento e non vanno private delle perule. Il materiale raccolto va conservato in sacchetti di plastica per evitare la disidratazione e, se è conservato per più giorni , va tenuto in frigorifero a 3- 4°C. I periodi migliori per prelevare gemme in riposo vegetativo sono: l'autunno (prima dell'entrata in dormienza ) e la fine dell'inverno (prima della ripresa vegetativa). Preferibilmente vanno prelevate gemme a legno.

Sterilizzazione
La sensibilità del materiale durante la fase di sterilizzazione è influenzata dallo stadio di vegetazione. Un apice vegetativo di un germoglio in attiva di crescita è infatti più sensibile delle sottostanti gemme ascellari, che sono parzialmente lignificate. È molto importante che l'agente sterilizzante entri in contatto con tutta la superficie dell'espianto, sopratutto se questo è dotato esternamente di peli o/e cere. In alcuni casi la sterilizzazione di superficie non elimina contaminazioni interne di batteri patogeni o non patogeni. Se l'espianto contaminato riesce a sopravvivere manifesta comunque un rallentamento della crescita e della proliferazione.

Stabilizzazione
Gli espianti sterili, provenienti dalla fase precedente, vengono trasferiti in opportuni substrati di coltura. La grandezza degli espianti varia da meno di 1 mm a pochi centimetri: se derivano infatti da meristemi apicali, provenienti da gemme dormienti o in attività, hanno una lunghezza compresa tra 0,1-1,5 mm, mentre se derivano da germogli la loro lunghezza è compresa fra 1-3 cm. L'apice gemmario che viene prelevato contiene una zona di cellule in attività di crescita ed alcuni primordi fogliari all'ascella dei quali si differenziano le gemme ascellari. Dalla crescita ed allungamento di questi abbozzi si ottiene il germoglio iniziale, più o meno sviluppato, che prende il nome di rosetta.
I fitoregolatori che vengono impiegati in questa fase e che favoriscono lo sviluppo degli espianti, sono gli stessi utilizzati durante la moltiplicazione e comprendono nella maggior parte dei casi, una auxina ed una citochinina; la loro concentrazione dipende dalla specie che si propaga e dal tipo di espianto . Fra le citochinine quella più utilizzata è la benzilamminopurina (BAP). Generalmente la concentrazione di citochinina impiegata per i meristemi è 0,1 mq/l, mentre per i germogli apicali è pari ad 1 mq/1. Le stesse  concentrazioni vengono utilizzate per le auxine: acido 3-indolbutirrico (IBA), o meno frequentemente, acido naftalenacetico (NAA). Durante la fase di stabilizzazione sono importanti le condizioni di luce e temperatura presenti nella camera di crescita. Per la maggior parte delle specie il fotoperiodo è di 16 ore e la temperatura è compresa fra 23-27° C. La durata di questa fase è di 3-6 settimane. La stabilizzazione è spesso difficile e richiede particolari procedure, sopratutto per evitare la produzione di sostanze che impediscono lo sviluppo dell'espianto. Questi composti non sono stati ancora classificati chiaramente, spesso tuttavia sono tannini condensati o idrolizzabili, o altri composti fenolici, la cui biosintesi è complessa, ma sembra comunque iniziare dall'acido scichimico. Sono naturalmente presenti nei vegetali, in quantità più o meno abbondante a seconda dello stadio fenologico e dell'etàdella pianta, come ad esempio la lignina. L'incremento della produzione di fenoli è associata ad una diminuizione dell'accrescimento, della sintesi proteica e ad un'alta concentrazione di zuccheri.
In generale la concentrazione dei polifenoli aumenta con l'età dei germogli. Nel castagno la concentrazione di tannini è bassa all'inizio del ciclo vegetativo, è massima nel mese di maggio e a fine estate (prima dell'entrata in riposo), mentre è minima nel periodo compreso fra gennaio e marzo. Poichè la riuscita della crescita in vitro è legata al momento del prelievo dell'espianto, nel pesco, per evitare una notevole produzione di tannini dopo il taglio, questo viene eseguito nel mese di giugno, quando i germogli sono in attiva crescita. In questo periodo è minore la concentrazione di perossidasi e polifenolossidasi, mentre è elevato il contenuto di auxine. Altri composti fenolici, contenuti sopratutto nel vacuolo, sono: flavonoidi, tannini idrolizzabili, acido caffeico. Tutte queste sostanze svolgono un ruolo importante perchè favoriscono i processi di cicatrizzazione e sono, inoltre, un mezzo di difesa contro molti parassiti. I prodotti di ossidazione dei fenoli sono composti bruni, detti chinoni, tossici e che inibiscono l'attività di alcuni enzimi rovocando il deperimento ed il graduale imbrunimento dell'espianto fino alla morte. L'ossidazione è favorita, oltre che dall'aria, dalla presenza di enzimi quali perossidasi e polifenolossidasi e causa l'imbrunimento oltre che dei tessuti anche del substrato. Questo problema è sentito sopratutto in alcune specie particolarmente ricche di sostanze polifenoliche, come ad esempio il noce, il castagno ed il pesco, limitanto l'utilizzazione della micropropagazione nei laboratori commerciali. Sono state sperimentate diverse tecniche per ridurre la produzione di queste sostanze da parte degli espianti coltivati in vitro.

Fase 2: Moltiplicazione o proliferazione.
In questa fase i singoli germogli ottenuti precedentemente vengono posti in opportuni substrati che favoriscono il loro rapido accrescimento e l'attività delle gemme ascellari e/o avventizie, in modo tale che da ciascuna di esse si sviluppino altrettanti germogli in un periodo di tempo compreso fra 3-5 settimane a seconda delle specie e delle condizioni di coltura.
I nuovi germogli possono essere:
  •  inviati direttamente alla successiva fase di radicazione;
  •  sottoposti ad una fase di allungamento per ottenere una maggiore uniformità dei germogli che vengono successivamente posti a radicare;
  • nuovamente moltiplicati su un substrato fresco per ottenere altri (subcoltura). In questo modo al termine di questa fase si può ottenere un numero molto elevato di germogli.


Il rapporto fra il numero di germogli ottenuti al termine di una subcoltura ed il numero di quelli posti a proliferare prende il nome di coefficiente di moltiplicazione, che dipende dal tipo di substrato, dalle condizioni ambientali di coltura, dalla specie o cultivar moltiplicata. Prolungando la fase di proliferazione e, conseguentemente il numero di subcolture si possono manifestare sintomi di invecchiamento, quali: ingiallimento, perdita delle foglie basali e necrosi apicale. Ciò può essere legato ad una formulazione non corretta del substrato di coltura per quanto riguarda i macro ed i microelementi e/o gli ormoni. Se le condizioni di sviluppo dell'espianto non sono ottimali può esistere anche il rischio di mutazioni, sopratutto per le specie che non hanno una buona stabilità genetica. Esperimenti eseguiti su Actinidia chinensis Pl. Hanno evidenziato che questa specie è adattabile alla coltura in vitro e non perde la capacità morfologica anche se mantenuta per un lungo periodo nella fase di moltiplicazione. Inoltre, nelle successive subcolutre, rimane inalterato il numero cromosomico e, quindi, l'actinidia dimostra anche una buona stabilità ed è perciò una specie rispondente alla micropropagazione. Una conferma a quanto affermato è data dal confronto di germogli derivati rispettivamente da 28 e 3 subcolture successive. I primi mostrano un coefficiente di moltiplicazione più elevato, producono meno callo ed un numero di radici maggiore rispetto ai secondi, che hanno invece una maggiore altezza. Ciò può essere legato a fattori ambientali, come il limitato volume dei va più che nutrizionale. Se le tecniche di trapianto non sono eseguite correttamente, o se le condizioni di sterilità dell'ambiente o degli strumenti di lavoro non sono ottimali, si può avere inquinamento della coltura da funghi o da batteri.
Le contaminazioni da funghi sono facilmente identificabili per lo sviluppo di muffe, che si evidenziano dopo alcuni giorni. Più difficile è il riconoscimento delle infezioni batteriche, perchè solo alcune si evidenziano precocemente con la formazione di colonie ben delimitate sulla superficie del terreno, o di intorbidamento diffuso del substrato. Le più subdole si manifestano con aloni alla base dei germogli dopo 20 o più giorni dalla messa in coltura, perciò è possibile diffondere la contaminazione alle successive subcolture.

Fase 3: Radicazione
Come precedentemente accennato, la fase di radicazione può essere preceduta da un periodo di 15-20 giorni, detto periodo di allungamento, in modo da ottenere germogli ben sviluppati: Il substrato utilizzato è lo stesso della fase 2, ma con una concentrazione molto ridotta di citochinine ed una più elevata di acido giberellico, in modo da evitare l'attività delle gemme ascellari ma favorire l'allungamento dei germogli. Successivamente ha inizio la fase di radicazione vera e propria. Nel processo rizogeno si possono distinguere tre fasi:
  •  fase di induzione (4 giorni), durante la quale non si osservano variazioni istologiche;
  • fase iniziatrice o di differenzazione (4°-6°giorno), una cellula parenchimatica comincia a modificarsi aumentando il proprio volume;
  • fase di attività meristematica.


Nella seconda fase diminuisce la concentrazione di perossidasi e conseguentemente aumenta il livello di auxine endogene. La radicazione è influenzata dalla concentrazione degli elementi minerali e dello zucchero, dalla presenza di carbone attivo, dalla natura del substrato, dal tipo di auxina, dalla sua concentrazione e dalla interazione con le altre sostanze ormonali e non  presenti nel terreno di coltura. Fra i fattori fisici e ambientali che influenzano la radificazione rivestono notevole importanza l'intensità luminosa ed il fotoperiodo. Per quanto riguarda la composizione minerale del substrato di radificazione, ad esempio nel melo, la concentrazione dei macroelementi viene dimezzata. Tra gli ormoni vengono utilizzate soltanto le auxine in concentrazione variabile a seconda della specie micropropagata e del metodo di somministrazione agli espianti. I germogli possono infatti restare in un substrato contenente acido 3- indolbutirrico, acido naftalenacetico o acido indolacetico per tutto il periodo necessario alla emissione delle radici, oppure essere trasferiti dopo circa una settimana (quindi al termine della fase di induzione alla radicazione) in un mezzo di coltura privo di acido 3-indolbutirrico. Nel primo caso per il pesco (una specie che radica con difficoltà "in vitro" per l'elevato contenuto di tannini) la concentrazione ottimale di acido indolacetico e acido naftalacetico è pari a 2,5x10-6 M (dosi maggiori causano deformazione dei germogli), mentre quella di acido 3-indolbutirrico è 1,5x10-5 M (concentrazioni maggiori hanno un effetto tossico).
Per il pecan, che presenta le stesse difficoltà di radificazione del pesco, Lazarte ha impiegato il substrato WPM (Woody Plant Medium) aggiungendovi 3 mq/l di acido 3-indolbutirrico e il 2% di glucosio. Nel secondo caso il castagno la dose ottimale da aggiungere al substrato iniziale è di lmq/l e lo sviluppo delle prime radici si ha dopo 2-3 settimane. La rizogenesi è possibile limitando il contatto dei germogli con le auxine ad una sola settimana perchè queste svolgono una azione favorevole nell'indurre il processo di radicazione, ma inibiscono l'accrescimento delle radici neoformate. Ciò è dimostrato dalle percentuali di radificazione che si ottengono in Actinidia chinensis immergendo i germogli in una soluzione di acido 3-indolbutirrico (19mg/l) per un breve periodo di tempo e coltivandoli poi in un substrato privo di auxina, oppure utilizzando per tutta la fase di radificazione un terreno di coltura contenente 1mg/l di acido 3-indolbutirrico, che rispettivamente sono pari al 75% ed al 37,5%.



Un'altra conferma della capacità delle auxine di indurre la radicazione è data dalle modificazione anatomiche della parte basale di germogli di noce dopo l'aggiunta di acido 3-indolbutirrico. Si osserva, infatti, un inspessimento della corteccia, l'estroflessione dei fasci parenchimatici e del cilindro centrale; anche le cellule fusiformi del cambio (cellule meristematiche) subiscono modificazioni. Questo effetto è evidente aggiungendo 500 pmm di acido 3- indolbutirrico, anche se il massimo effetto si ottiene aggiungendo 2000 ppm. Un altro metodo per favorire l'emissione delle radici è l'immersione della parte basale dei germogli (1 cm circa) in una soluzione contenente acido 3-indolbutirrico ed il successivo trasferimento dei germogli in un substrato privo di auxine per l'emissione delle radici.
Sempre nel castagno, si consegue una ottima radicazione lasciando immersi i germogli per un tempo variabile fra 2-15 minuti a seconda della concentrazione di auxina (rispettivamente 1-0,5 mg/l). In Pinus radiata si è visto che il GA3 inibisce la radificazione se somministrato all'inizio della prima fase e ciò è forse dovuto ad una diminuizione della concentrazione di auxine endogene in questo periodo, mentre stimola la formazione delle radici se somministrato successivamente. La rizogenesi è influenzata negativamente dalla presenza di tannini e altre sostanze fenoliche. Sopratutto nelle specie dove la produzione di questi composti è notevole, per favorire l'emmissione delle radici al substrato si aggiunge carbone attivo, che assorbe anche altre sostanze tossiche. Gli effetti positivi del carbone presente nel mezzo di coltura sono stati evidenziati sia sull'accrescimento in vitro che sulla successiva fase di radificazione dei germogli in Sequoiadendron giganteum.
Un'altra tecnica che favorisce la radificazione dei germogli è l'eziolamento degli stessi per 1-2 settimane all'inizio della fase di radicazione. Nel melo si ottengono risultati positivi mantenento gli espianti al buio per 4-7 giorni. Il mantenimento al buio del materiale vegetale ed il carbone attivo hanno un effetto sinergico sulla radicazione. Mantenendo infatti germogli di melo al buio per 8 giorni in un substrato contenente sia acido 3-indolbutirrico che carbone si ottiene una percentuale di radicazione pari all'86,2% mentre in assenza di carbone questa percentuale scende al 65%. Tuttavia durante il periodo di eziolamento è bene che nel substrato non sia presente il carbone attivo perché può assorbire l'acido 3-indolbutirrico. Come supporto fisico per i germogli possono essere impiegati substrati agarizzati, terreni liquidi, torba, vermiculite e agriperlite. Questa fase ha una durata di 3-5 settimane e l'emissione di radici funzionali si può rilevare dalla  formazione di nuove foglie.
  
Fase 4: Ambientamento
È l'ultima fase della micropropagazione: le piantine vengono trasferite dalla camera di accrescimento alla serra quando presentano un apparato radicale sufficiente a garantire l'attecchimento "in vivo".
L'ambientamento si distingue in due stadi:
  • attecchimento delle piantine nel nuovo substrato di trapianto;
  • ambientamento vero e proprio alle condizioni della serra e del campo.


Il primo stadio si favorisce mantenendo umidità e temperatura simili a quelle in vitro. Dopo alcuni giorni, se gli apici mostrano attività di crescita, inizia il secondo stadio durante il quale temperatura e umidità vengono portate lentamente a quelle naturali. L'ambiententamento è reso difficile dalle caratteristiche dei tessuti in vitro cresciuti in un ambiente caratterizzato da temperatura uniforme, umidità elevata e costante. Per permettere ai diversi organi di riacquistare la normale attività, l'acclitamento deve quindi essere graduale. Il livello di umidità del substrato di trapianto rappresenta un fattore importante sia per l'accrescimento delle radici che per un eventuale attacco di patogeni; perciò devono essere impiegati substrati capaci di assicurare una sufficiente permeabilità ed areazione del mezzo e contemporaneamente trattenere una quantità soddisfacente di acqua. I componenti del terriccio più comunemente utilizzati sono: torba, sabbia e perlite, in rapporti diversi a seconda delle esigenze delle specie. Attualmente vengono sperimentate anche schiume sintetiche inerti. Per avere un’umidità atmosferica simile a quella dei vasi di coltura può essere impiegato un sistema di spray che incrementa gradualmente gli intervalli di erogazione dell’acqua.

Con questo metodo si raggiunge spesso un livello di umidità del substrato eccessivo che può causare asfissia radicale. Perciò è preferibile l'impiego di tunnel di plastica posti sopra i bancali, nei quali l'elevato livello di umidità è assicurato dalla evaporazione dell'acqua contenuta nel terreno. La luce e la temperatura vanno mantenute allo stesso livello della fase precedente. Tuttavia le diverse tecniche presentano vantaggi e svantaggi in base ai costi delle strutture ed al fabbisogno di umidità e temperatura delle singole specie.
L'ambientamento determina delle variazioni della struttura e della funzionalità de  tessuti. La pianta coltivata in vitro presenta, infatti, un metabolismo diverso rispetto ad una pianta cresciuta in condizioni normali: è essenzialmente eterotrofa poichè per il suo accrescimento utilizza il saccarosio presente nel substrato di crescita e fissa solo piccole concentrazioni da anidride carbonica. Uno dei primi problemi incontrati dalle piante ex vitro è l'eccessiva perdita di acqua. Questo fenomeno è legato alla consistenza delle foglie dei germogli sviluppatesi in vitro che sono sottili, con scarsa formazione del mesofillo e con
il tessuto a palizzata che presenta grandi spazi intercellulari. Presentano anche poche cere epicuticolari poichè all'interno del contenitore esiste una elevata umidità relativa. Gli stomi sono caratterizzati da una scarsa funzionalità. Per favorire il graduale aumento dello spessore del mesofillo e la riduzione degli spazi intercellulari e quindi evitare stress di trapianto e difficoltà nel successivo sviluppo, la pianta va inizialmente mantenuta in condizioni il più possibile vicine a quelle della camera di crescita. In alcune specie le radici formate su substrato agarizzato non presentano un capillizio radicale e muoiono dopo il trapianto e se ne sviluppano altre ex novo che assicurano la sopravvivenza della pianta.
Prove eseguite su Acacia koa hanno evidenziato che le radici sviluppatesi su substrato liquido presentano invece peli radicali ed un sufficiente sistema vascolare.
Anche nel noce, sono stati ottenuti migliori risultati utilizzando come substrato per i germogli, precedentemente immersi per 15" in una soluzione di IBA (10 pmm), la vermiculite. In questo modo si ottiene anche un vantaggio economico poichè le operazioniinerenti le fasi di radicazione, di trapianto e di ambientamento richiedono un impiego elevato di manodopera con un costo relativo che si aggira intorno al 56% di quello totale.Se la radicazione è avvenuta in un substrato agarizzato, le piantine vanno sciacquate in acqua per eliminare residui del mezzo di coltura che favoriscono lo sviluppo di batteri e funghi patogeni.


Importanza della micropropagazione
-La cellula vegetale contiene tutte le informazioni necessarie alla crescita e alla riproduzione della pianta-

Dalla teoria di totipotenza elaborata da Scheleiden e Schwann nel 1938 prendono il via la micropropagazione e le tecniche ad essa connesse delle colture in vitro. Negli anni ’60 si arriva ad un utilizzo e applicazione di questa tecnica su larga scala per colture erbacee ed arbustive di interesse economico mentre solo verso la metà degli anni ’70 la ricerca ha rivolto la propria attenzione alle piante legnose da frutto in contemporanea alla nascita delle prime aziende specifiche per la produzione in vitro a dimensione industriale. Attualmente la micropropagazione viene attuata per portinnesti e varietà, piante forestali, orticole, ornamentali e piante da fiore reciso. La micropropagazione, la quale consente la produzione di una grande quantità di piante in tempi relativamente brevi e in spazi limitati, viene intesa come la produzione di piante a partire da piccole porzioni di materiale vegetale coltivato in ambiente asettico in condizioni nutrizionali e ambientali controllate. La micropropagazione offre un’altra serie di vantaggi sia economici che fitosanitari:

• l’accrescimento e la produzione risultano svincolate dall’andamento stagionale, in quanto si opera in un ambiente con condizioni di temperatura e luminosità controllate. Risulta perciò possibile programmare cicli di lavoro e i quantitativi prodotti in funzione delle richieste di mercato.
• il materiale di partenza è costituito da piccole parti di pianta e questo consente un notevole risparmio nel mantenimento delle piante madri.
• l’isolamento rende inoltre possibile la massima resa delle colture, in quanto il materiale in vitro è esente da attacchi parassitari o patogeni e permane nelle condizioni sanitarie in cui era al momento dell’inizio della coltura. L’impossibilità che attraverso queste colture si diffondano parassiti dannosi apre le barriere doganali o sanitarie che molti paesi hanno eretto per impedire la penetrazione di materiale vegetale contaminato.
• consente l’ottenimento di varietà di specie arboree da frutto franche di piede, evitando il ricorso agli innesti e il conseguente rischio di disaffinità tra i due bionti.
• permette la lunga conservazione del germoplasma di varietà altamente produttive o resistenti ai patogeni, consentendo di avere a disposizione un corredo genetico da utilizzare secondo le necessità. Una tecnica per ottenere la conservazione a lungo termine è fornita tramite la crioconservazione ovvero la conservazione in azoto liquido a -196°C delle cellule per rallentare la maggior parte delle attività metaboliche delle stesse.

Fattori fondamentali della micropropagazione
Ci sono vari fattori che influiscono sull’efficacia della tecnica di micropropagazione e i principali possono essere rappresentati dalla componente minerale del substrato di coltura, dal bilancio ormonale e dalle condizioni ambientali della camera di crescita. In micropropagazione in vitro le condizioni ambientali (ad esempio, le condizioni ambientali circostanti alle piantine dentro i recipienti di coltura, come le condizioni di luce, temperatura e composizione del gas), hanno un ruolo importante nella crescita delle piantine. Normalmente, in vitro le condizioni ambientali non possono essere controllate direttamente, invece, sono in gran parte determinate dalle condizioni di coltura regolamentate al di fuori del vaso.   Pertanto,  le condizioni devono essere ottimizzate per la crescita delle piantine. 

E’ necessario, per ottimizzare le condizioni di coltura, comprendere le relazioni tra le condizioni di crescita delle colture in vitro e lo stato fisiologico delle piante.  In vitro le condizioni ambientali possono cambiare con la crescita delle piantine, pertanto, una valutazione non distruttiva della crescita delle piantine micropropagate e del loro stato fisiologico, senza disturbare l'ambiente in vitro è auspicabile per studiare queste relazioni e tenere conto delle loro dinamiche.  Recenti studi hanno rivelato che piantine coltivate in vitro sono dotate di una soddisfacente  capacità fotosintetica ma i loro tassi netti di fotosintesi sono stati limitati dalle condizioni ambientali. Le proprietà di fotosintesi delle piantine in vitro dipendono  dalle condizioni di cultura, tra cui l'intensità della luce, il grado di scambio d'aria , e il contenuto di zucchero nel mezzo.  La micropropagazione fotoautotrofica  che è una forma di micropropagazione senza zuccheri aggiunti al mezzo, ha dato molti vantaggi, soprattutto in piantine di qualità. Per il successo della micropropagazione fotoautotrofica devono essere  adeguatamente controllate le condizioni ambientali in vitro per migliorare la fotosintesi delle piantine.  La comprensione dei cambiamenti nelle proprietà fotosintetiche, di piantine coltivate, è fondamentale per ottimizzare le  condizioni di coltura per ottenere piantine di alta qualità. E 'difficile valutare le proprietà di fotosintesi delle piantine in modo non distruttivo.   Un metodo non invasivo potrebbe essere quello di misurare i tassi di scambio di gas di piantine in vitro, all'interno e all'esterno del recipiente di cultura. Tuttavia, la stima dei tassi di cambio del gas è misurata per tutte le piantine all'interno del recipiente, mentre dovrebbero essere convertiti in tassi per unità di area fogliare. Ciò richiede la stima dell’area fogliare.

Inoltre, va osservato che le condizioni ambientali potrebbero essere non uniformi in un recipiente di coltura anche in condizioni di coltura controllata. Nei recipienti di coltura, il movimento d'aria è limitato, e come risultato, ci possono essere sfumature di umidità e / o concentrazioni di CO2 all'interno dei vasi diverse.  Inoltre, data la distribuzione verticale, l'intensità della luce varia anche in vasi sottili come provette. Ciò potrebbe causare variazioni microambientali in vitro e di conseguenza provocare variazioni della capacità fotosintetica. Questa variazione può influenzare l'uniformità qualitativa delle piantine.   La comprensione delle variazioni fotosintetiche di piantine coltivate può essere utile per ottenere una uniforme qualità.

Probabilmente la cosa peggiore che ogni ricercatore possa fare quando si intraprende una nuova tecnica in vitro, è quella di utilizzare materiale non è ottimale. Questo non significa solo operare con una specie, varietà o genotipo sbagliato ma anche utilizzare materiale coltivato in condizioni non conformi. Detto questo occorrerà evitare tutto quel materiale proveniente da piante malate o troppo vecchie o che non sono state mantenute  in una fase di crescita attiva durante tutta la loro vita. Con i materiali non ottimali si possono riscontrare problemi di colture non sterili ed eccessiva variabilità nella risposta che può portare anche ad un completo fallimento dell'esperimento. Per la maggior parte delle applicazioni, gli espianti  da piante molto giovani rispondono meglio. Allo stesso modo, anche quando le piante sono sane e nella giusta fase per essere micropropagate, non è raro che solo una parte specifica di questi impianti siano più propensi ad essere micropropagati rispetto ad altri. 



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